Vorrei condividere con voi questo passo tratto dal libro di Michele Mari Tu, sanguinosa infanzia.
Mi ha completamente rapita e l'ho letto in mezza giornata.
Quella che riporto è la parte che più ho sentito mia... Per quell'intesa e quella sintonia, quasi maniacale, che solo una madre con un figlio può avere, quella ricercata e solenne solitudine, il gusto nel dilapidare il tempo trionfando sul mondo, la gelosia delle proprie emozioni, nel preservare la loro segretezza e la loro esclusività e per amore di quella misteriosa dolcezza di certi verdini...
Buona lettura e buon inizio settimana miei diletti.
Il primo puzzle rappresentava un paesaggio andino di anonimo spagnolo del diciannovesimo secolo, settecentocinquanta pezzi. Mia madre era l'architetto e il capocantiere, io uno scalpellino. Le mie mansioni erano solo servili: raggruppare in un angolo tutti i pezzi celesti, cercare nella scatola un certo pezzo tribolato, orientare diversamente il coperchio che riproduceva l'immagine. Con didascalico zelo mia madre commentava il proprio operato per rivelarmi il metodo che lo sottendeva: non rimestare caoticamente nella scatola ma scrupolosamente scostare, rivoltare, isolare; suddividere certe classi di pezzi per colorazione o per grana, allogandole in tazze, pentolini, piattini; deporre dolcemente il pezzo nella sua sede senza volervelo incastrare; comporre prima la cornice poi le figure più facili incominciando dai loro contorni infine i cieli ed i prati partendo dalla linea del loro confine; sapere quando smettere di ostinarsi su una determinata zona per aprire un fronte novello; ricordarsi che di norma un pezzo quadrilobato cade in un quadrato centrale di sedici pezzi per lato, alternare lo sguardo negativo allo sguardo positivo, dialetticamente contemperando la ricerca del pieno di cògnito vuoto e del vuoto di cògnito pieno; non fidarsi alla prima compatibilità delle forme, dei colori e delle linee ma scetticamente supporre in via prudenziale una diabolica coincidenza, e in mancanza dell'ultima certezza astenersi.
La scuola del rigore, il rigore di quella scuola... Ebbi il privilegio di mettere un pezzo solamente alla fine del puzzle successivo, un Hans Holbein da mille: il quintultimo, mi fu concesso, con un margine di incertezza e di responsabilità che lasciandomi la facilità del debutto non me ne togliesse l'emozione. Per arrivare a collocare quel pezzo avevo dovuto imparare a tenerlo dai lati come si tengono le fotografie: deponendolo ebbi la sensazione che si sciogliesse nel quadro come una goccia di mercurio. Il corretto inserimento di quel pezzo segnò la mia iniziazione alla sublime disciplina, il cui fascino severo mi si sarebbe rivelato per gradi fino al punto in cui, come nello studio del greco antico o dell'algebra, la competenza si sveste della tecnica per diventare fonte animalesca di piacere. Mia madre era, notoriamente, un mostro di bravura: nel volgere di due anni acquisii sufficiente destrezza per impegnarla in competizioni che, comunque risolte a suo favore, non erano del tutto prive di incertezza. In capo al terz'anno avevo raggiunto il suo livello. Passati altri tre anni, nel momento stesso in cui risolsi brillantemente l'arduo nodo esegetico di un falso cono d'ombra in un Altdorfer da quattromila, mi disse che ero diventato il più bravo. Commosso, negai: ella mi abbracciò, mi confidò che fin dalle prime prove aveva avuto la certezza di quell'evento, mi vaticinò la gloria dell'ultima soglia, la rarefazione elisia. Oggi che sono solo e che quella soglia è mia so che per qualche istante della sua vita ella dovette averne una fugace visione, tanto le si illuminava lo sguardo quando mi parlava di quella fantastica larva, l'abolizione della tecnica, l'assolluta purificazione del gesto, la fisica, prementale conoscenza del destino di un pezzo qualsiasi, la sua immediata collocazione non già nell'economia dei pieni e dei vuoti ma nella nudità dello spazio, alla giusta, alla sola intersezione delle coordinate virtuali.
Spesso sono visitato e travolto dalle simultanea memoria di tutti i puzzle eseguiti prima di arrivare dove mi trovo ora, Cézanne, Pontormo, Corot, Zurbaràn, Friedrich, Vermeer, Morandi, Klee, Pisanello, Van Gogh, Bruegel, Rembrandt, Goya, Van Dyck, fu anche per imparare la storia dell'arte in maniera non scolastica, attraverso i dettagli e la fisicità delle pennellate; in questo mia madre mi tacciò la via senza esitazione, facendomi capire fin dai primi tempi che qualunque soggetto non pittorico avrebbe involgarito la nostra disciplina fino a svuotarla di senso. Per una forma di pudore in cui si fondevano la pietà e il disgusto non mi parlò mai esplicitamente di puzzle con soggetti fotografici: ma io sapevo che le sue perifrasi alludevano a quegli obbrobri, e mi turbavo all'idea di tanta bassezza. La sua intransigenza fu subito la mia: non meno imbarazzato, non posso posare lo sguardo su una di quelle scatole senza provare lo scandalo dei Padri della Chiesa nei confronti dgli eretici.
Mia madre che da molti anni si teneva sopra la quota dei cinquemila pezzi, ridiscese a livelli inferiori per il tempo necessario alla mia educazione. Una volta risalita a cinquemila, pervasa da nuova giovinezza, contenne a stento la sua febbre, e dopo avermi lasciato familiarizzare con quella quota mi trascinò con sè su per le altitudini. Ottomila, diecimila, dodicimila pezzi, il massimo cui fosse mai giunta. Tante volte mi aveva parlato di quell'antico dodicimila che quando lo portò giù dal solaio, e io capii che lo avremmo rieseguito insieme, mi sentii risucchiato alle radici stesse del mio destino. Era il grande polittico di Grünewald conosciuto come Polittico Isenheim; incominciato la sera di Natale e condotto al ritmo di duemila pezzi al giorno fu concluso, e immediatamente disfatto, entro il termine del capodanno. Questa era un'altra delle leggi fondamentali dell'arte , ultima in ordine di applicazione ma prima dal punto di vista logico e ontologico: non potersi considerare ultimato e inverato ilpuzzle se non dopo il suo scioglimento, e precisarsi: il suo immediato scioglimento; e scendere per corollario: andare ogni istante di indugio, dopo la prosa dell'ultimo pezzo, a detrimento del senso e quindi del valore dell'intera esecuzione, come cosa che avrebbe potuto metterne in dubbio la assoluta gratuità. Sulla coscienza di tale gratuità, pezzo dopo pezzo, si fonda il piacere e l'orgoglio dell'adepto, che in questa assenza di scopo purifica il proprio animo allegerendolo del carco di durezze che nascendo sortiamo. Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non per "passare del tempo" - che rimarrebbe comunque una forma di interesse e di giustificazione ab externo - ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. E dunque codesta verità imparai da mia madre: che il momento più idoneo ad incominciare un nuovo puzzle è quando siamo oberati di impegni, nell'urgenza affannosa delle cose serie, delle cose sode: quale trionfo sul mondo, allora, dedicarsi a quella sceientifica dilapidazione del tempo! Ma appunto perchè l'inutilità sia perfetta occorre che l'opera si dissolva nel momento stesso in cui si completa e completandosi si reifica: certo chi ne differisce la distruzionelo fa per contemplare ancora un pò il risultato: ma per quanto la contemplazione possa illudere del contrario, essa non è mai disinteressata. Noi infatti sappiamo che la vista del ricomposto dipinto, lungi dal rimanere un'esperienza neutra, inocula nell'esecutore l'impura idea di aver agito a quel fine - la contemplazione, appunto - e non per la devozione al bello-inutile, a quel certo tipo di bello-inutile-metodico di cui si sta qui discorrendo. Eppure - anche di ciò mia madre mi avvertì per ambagi - esistono persone che completato un puzzle lolasciano gioni e giorni sul tavolo, alla mercè visiva loro e di chiunque altro. E persone ancora più depravate che non lo disfanno mai, e che per questo incollano tutti i pezzi su un cartone o una tavola di legno sottile. E persone, infine, che arrivano al punto di appendere a una parete quella cosa tremenda, quell'aberrazione che è un puzzle incollato.
Sì, l'ortodossia del puzzle era minacciata da quelle oscenità - l'eresia fotografica, l'eresia conservativa, l'eresia incollativa, l'eresia appenditiva - e a meglio fronteggiarle mia madre ed io non solo rispettavamo la legge ma anche ne professavamo un'interpretazione restrittiva. Secondo tale interpretazione, il puzzle non doveva mai essere esibito ad estranei nemmeno casualmente, ma, come cosa affatto segreta, dovere rimanere impartecipato durante l'intera sua parabola. A tal fine, considerandosi estranei anche i familiari più stretti, essere necessario al titolare di puzzle svolgere la propria attività in camera chiusa con divieto di accesso; e nell'impossibilità di interdire l'accesso, essere sommamente raccomandabile l'abitudine di coprire il lavoro, durante le pause, con un serico velabro.
Se pertanto il devoto di essere chiamato a praticare una solenne solitudine, perchè solo nella solitudine il fruscio di quei minuscoli pezzettini si tramuterà in sermocinante sussurro. Un conto erano i puzzle a quattro mani, nei quali mia madre ed io collaboravamo come una sola persona: ma quando uno di noi aveva il personale suo proprio, mai l'altro avrebbe preteso aiutare, mai pur incombere con losguardo come a suggerire di avre visto una mossa. Nondimeno era pressochè impossibile, passando vicino all'opera incustodita dell'altro, resistere alla tentazione di inserire almeno un pezzo: in tal caso era però deontologico, prima di andarsene, disinserire quel pezzo ricollocandolo là donde lo si era prelevato, e a suo tempo avvertire: "Ti misi un pezzo, tel tolsi". Entrambi, del resto, avevano raggiunto un tale dominio della materia che anche la più piccola alterazione non ci sarebbe sfuggita.
La solitudine... La solitudine del prigioniero, la solitudine del demiurgo. Seguendo le orme materne imparai la frammentorietà del mondo e la discontinuità dell'essere, imparai ingenuamente le vie della gnosi, imparai che non si dà sapere che non riconduca il molteplice all'uno e non dia forma all'informe; che le monadi tengono della favola perchè nessun frammento potrà mai esaurire il disegno; che sconnesso dalla sua sede ogni ente decade: e tuttavia e finalmente, che al senso del cosmo non concorre qualità od essenza qualsia ma solo il principio di quantità nelle sue determinazioni di computabile somma e di istoriabile serie. Giustapporre, associare, legare per congruenza di forme assecondando le analogie ed esaltando le compatibilità! Decifrare gli enigmi non sulla mistica strada dei filosofi e dei teologi ma con l'animo del cartografo e dell'archivista, del lessicografo e del naturalista! Capire che il grande sapiente non è Platone, ma Ramusio, non Hegel, ma Linneo! Intravedere una linea analitica al faustismo! Per questo, per questo miraggio di una estensione orizzontale del sapere servivano puzzle sempre più grandi.
In Italia non si reperivano scatole superiori ai dodicimila pezzi. Esauriti tutti quelli disponibli sul mercato, mia madre ed io ci trovammo presto nella penosa condizione di dovere attendere che la ditta produttrice ne distribuisse di nuovi: poichè questo avveniva a un ritmo assai più lento della nostra velocità di esecuzione, ne conseguiva che se non volevamo aspettare troppo dovevamo ripiegare su pezzature da diecimila o ottomila in vero ormai umilianti. Certo potevamo riaffrontare un dodicimila già fatto, ma questa del rifacimento era questione troppo delicata perchè potessimo introdural così alla leggera nei nostri discorsi; pur non condividendo l'intransigenza di grandi maestri che si erano pubblicamente pronunciati contro l'ipotesi ripetitiva, una replica era così troppo dubbia perchè noi due non la effettuassimo senza disagio.
Quando su un catalogo specializzato trovammo notizia di una Tentazione di Sant'Antonio in quindicimila pezzi prodotta da una piccola ditta alsaziana per il bicentenario del Museo de Arte antiga di Lisbona ne ordinammo immediatamente due copie, quali poi svolgemmo ognuno per conto proprio con soddisfazione suprema; in quell'occasione anticipai mia madre di un giorno e una notte. Fu poi la volta di una Ronda di notte in ventiquattromila pezzi, acquistata per telefono da una Casa d'Aste di Buenos Aires; il catalogo non recava indicazioni di fabbrica, così fu una vera rivelazione, all'apertura del pacco, scoprire che si trattava di un esemplare unico al mondo , realizzato nel 1930 da un artigiano per un amatore uruguagio. Del quadro di Rembrandt avevamo già avuto un'esperienza da cinquemila: la diversità fu tale da farci giurare reciprocamente che mai avremmo lasciato alcunchè di intentato pur di concederci ancora un simile piacere.
Fu così che ebbe inizio la nostra rovina economica. Divenimmo intrinseci di fotografi d'arte, stampatori e fustellatori, cui commissionammo ogni nostro antico sogno: la Cisterna di Sironi in diciottomila pezzi, il particolare della targa di un cavallo di Fattori in ventimila, una china acquerellata di Kubin in venticinquemila, un Velàzquez e un de La Tour in trentamila, il Giudizio Finale di Roger Van der Weyden in quarantamila, la Pietà di Duccio da Buoninsegna in cinquantottomila, una livida alba di Turner in settantaduemila. E come quelle montagne di pezzettini non erano mai abbastanza alte, così non c'era tavolo che offrisse una base sufficiente. Già diecimila pezzi erano considerevoli problemi di spazio: superare tale soglia significava dover ricorrere a piani sospesi e paranchi mobili, oppure lavorare direttamente per terra, oppure ancora, quando nemmeno il pavimento è capace, accettare di ripartire il puzzle in settori da eseguire separatamente in più stanze o in più tempi. Allora, percorrendo stretti camminamenti fra i mosaici e le tessere sparse, ci aggiravamo dentro la casa come posatori bizantini, in volumi perpetuamente invasi dalla sospensione del pulviscolo di cartone che ogni puzzle lascia in residuo; ho il sospetto, anzi la certezza, che quell'aereo plancton non facesse bene alla nostra salute: ma noi lo si attraversava a cuor leggero, e quando i raggi del sole lo illuminavano ci sembrava una... una chiamata.
La nostra ansia di perfezione non conosceva limite. Se già da molti anni avevamo preso l'abitudine di rinunziare a guardare l'immagine di riferimento (tanto da arrossire all'idea che c'era stata un'età precedente in cui avevamo indulto a quella pratica volgare), e se in concomitanza della penuria dei dodicimila eravamo talvolta ricorsi all'espediente di mescolare insieme i pezzi di due identici puzzle da seimila (che poi identici non essendo per via dell'irripetibilità di ogni trafilatura non consentivano l'intercambiabilità dei pezzi, moltiplicando al contrario, per necessità sceverativa, i fronti ambigui del cimento), ora mia madre ed io ci inoltrammo nell'esplorazione di più fantastiche vie. Ordinammo quattro puzzle da venticinquemila raffiguranti ciascuno una diversa Madonna del Giambellino: discioltili in un unico serbatoio, conoscemmo l'ebrezza di assegnare tutti quei blu ai quattro simillimi ma differenti panneggi. Decidemmo di realizzare un puzzle a scacchiera, mettendo un pezzo sì e uno no in modo che si toccassero solo con gli spigoli: saggiato con un Sebastiano del Piombo da ventimila, il metodo fu perfezionato con un Gauguin da trentottomila, nella quale occasione eseguimmo anche una seconda scacchiera, complementare e negativa della prima. Ci spingemmo in questa direzione fino a stabilire di disporre i pezzi secondo una complessa successione algoritmica: ma di questo esperimento, di cui per altro fu oggetto un semplice Seurat da diecimila, non serbo un ricordo significativo. E naturalmente, eseguivamo puzzle capovolti, di ogni dimensione e pezzatura; per elevare alla sua potenza tale difficoltà, facemmo fustellare cartoni grigi su entrambi i lati con politura e patinatura double-face. Nell'impossibiltà di aumentare a dismisura il numero dei pezzi ci aveva preso come una mania sottrattiva: abolita l'immagine, fu giocoforza pervenire alla completa abolizione della dimensione visiva, risultato che ottenemmo operando al buio per mera sensibiltà digitale; su questa strada, tuttavia, ed è cosa che non posso rivelare senza una certa pena, mia madre non fu in grado di seguirmi fino in fondo. Dal canto mio, giunsi invece a lavorare con un paio di guanti per mortificare la virtù dei polpastrelli.
Fra un puzzle e l'altro solevamo svagarci con esercizi mnemonici, il più elementare dei quali consisteva in questo: prelevato un pezzo da una delle centinaia di scatole, uno di noi invitava l'altro a riconoscerne la provenienza; la risposta andava articolata come segue: "Paul Cèzanne, Paesaggio normanno, olio su tela, 1891, kunstmuseum di Berlino, trentamila unità, frammento di tronco di quercia"; "Simone Martini, La maestà, affresco, 1315 circa, Palazzo Pubblico di Siena, quarantamila unità, frammento di aureola dell'Arcangelo Gabriele".
Adesso si è fatto veramente tardi. Potrei raccontare ancora tante cose, ma non ne ho la voglia nè il tempo: vi dico che è tardi.
Di tanta memoria, di tutta la mia memoria, scelgo di portarmi nel nulla quel cortese fruscìo, le screpolature nell'oro delle tavole medioevali, la misteriosa dolcezza di certi verdini.
Mi ha completamente rapita e l'ho letto in mezza giornata.
Quella che riporto è la parte che più ho sentito mia... Per quell'intesa e quella sintonia, quasi maniacale, che solo una madre con un figlio può avere, quella ricercata e solenne solitudine, il gusto nel dilapidare il tempo trionfando sul mondo, la gelosia delle proprie emozioni, nel preservare la loro segretezza e la loro esclusività e per amore di quella misteriosa dolcezza di certi verdini...
Buona lettura e buon inizio settimana miei diletti.
Il primo puzzle rappresentava un paesaggio andino di anonimo spagnolo del diciannovesimo secolo, settecentocinquanta pezzi. Mia madre era l'architetto e il capocantiere, io uno scalpellino. Le mie mansioni erano solo servili: raggruppare in un angolo tutti i pezzi celesti, cercare nella scatola un certo pezzo tribolato, orientare diversamente il coperchio che riproduceva l'immagine. Con didascalico zelo mia madre commentava il proprio operato per rivelarmi il metodo che lo sottendeva: non rimestare caoticamente nella scatola ma scrupolosamente scostare, rivoltare, isolare; suddividere certe classi di pezzi per colorazione o per grana, allogandole in tazze, pentolini, piattini; deporre dolcemente il pezzo nella sua sede senza volervelo incastrare; comporre prima la cornice poi le figure più facili incominciando dai loro contorni infine i cieli ed i prati partendo dalla linea del loro confine; sapere quando smettere di ostinarsi su una determinata zona per aprire un fronte novello; ricordarsi che di norma un pezzo quadrilobato cade in un quadrato centrale di sedici pezzi per lato, alternare lo sguardo negativo allo sguardo positivo, dialetticamente contemperando la ricerca del pieno di cògnito vuoto e del vuoto di cògnito pieno; non fidarsi alla prima compatibilità delle forme, dei colori e delle linee ma scetticamente supporre in via prudenziale una diabolica coincidenza, e in mancanza dell'ultima certezza astenersi.
La scuola del rigore, il rigore di quella scuola... Ebbi il privilegio di mettere un pezzo solamente alla fine del puzzle successivo, un Hans Holbein da mille: il quintultimo, mi fu concesso, con un margine di incertezza e di responsabilità che lasciandomi la facilità del debutto non me ne togliesse l'emozione. Per arrivare a collocare quel pezzo avevo dovuto imparare a tenerlo dai lati come si tengono le fotografie: deponendolo ebbi la sensazione che si sciogliesse nel quadro come una goccia di mercurio. Il corretto inserimento di quel pezzo segnò la mia iniziazione alla sublime disciplina, il cui fascino severo mi si sarebbe rivelato per gradi fino al punto in cui, come nello studio del greco antico o dell'algebra, la competenza si sveste della tecnica per diventare fonte animalesca di piacere. Mia madre era, notoriamente, un mostro di bravura: nel volgere di due anni acquisii sufficiente destrezza per impegnarla in competizioni che, comunque risolte a suo favore, non erano del tutto prive di incertezza. In capo al terz'anno avevo raggiunto il suo livello. Passati altri tre anni, nel momento stesso in cui risolsi brillantemente l'arduo nodo esegetico di un falso cono d'ombra in un Altdorfer da quattromila, mi disse che ero diventato il più bravo. Commosso, negai: ella mi abbracciò, mi confidò che fin dalle prime prove aveva avuto la certezza di quell'evento, mi vaticinò la gloria dell'ultima soglia, la rarefazione elisia. Oggi che sono solo e che quella soglia è mia so che per qualche istante della sua vita ella dovette averne una fugace visione, tanto le si illuminava lo sguardo quando mi parlava di quella fantastica larva, l'abolizione della tecnica, l'assolluta purificazione del gesto, la fisica, prementale conoscenza del destino di un pezzo qualsiasi, la sua immediata collocazione non già nell'economia dei pieni e dei vuoti ma nella nudità dello spazio, alla giusta, alla sola intersezione delle coordinate virtuali.
Spesso sono visitato e travolto dalle simultanea memoria di tutti i puzzle eseguiti prima di arrivare dove mi trovo ora, Cézanne, Pontormo, Corot, Zurbaràn, Friedrich, Vermeer, Morandi, Klee, Pisanello, Van Gogh, Bruegel, Rembrandt, Goya, Van Dyck, fu anche per imparare la storia dell'arte in maniera non scolastica, attraverso i dettagli e la fisicità delle pennellate; in questo mia madre mi tacciò la via senza esitazione, facendomi capire fin dai primi tempi che qualunque soggetto non pittorico avrebbe involgarito la nostra disciplina fino a svuotarla di senso. Per una forma di pudore in cui si fondevano la pietà e il disgusto non mi parlò mai esplicitamente di puzzle con soggetti fotografici: ma io sapevo che le sue perifrasi alludevano a quegli obbrobri, e mi turbavo all'idea di tanta bassezza. La sua intransigenza fu subito la mia: non meno imbarazzato, non posso posare lo sguardo su una di quelle scatole senza provare lo scandalo dei Padri della Chiesa nei confronti dgli eretici.
Mia madre che da molti anni si teneva sopra la quota dei cinquemila pezzi, ridiscese a livelli inferiori per il tempo necessario alla mia educazione. Una volta risalita a cinquemila, pervasa da nuova giovinezza, contenne a stento la sua febbre, e dopo avermi lasciato familiarizzare con quella quota mi trascinò con sè su per le altitudini. Ottomila, diecimila, dodicimila pezzi, il massimo cui fosse mai giunta. Tante volte mi aveva parlato di quell'antico dodicimila che quando lo portò giù dal solaio, e io capii che lo avremmo rieseguito insieme, mi sentii risucchiato alle radici stesse del mio destino. Era il grande polittico di Grünewald conosciuto come Polittico Isenheim; incominciato la sera di Natale e condotto al ritmo di duemila pezzi al giorno fu concluso, e immediatamente disfatto, entro il termine del capodanno. Questa era un'altra delle leggi fondamentali dell'arte , ultima in ordine di applicazione ma prima dal punto di vista logico e ontologico: non potersi considerare ultimato e inverato ilpuzzle se non dopo il suo scioglimento, e precisarsi: il suo immediato scioglimento; e scendere per corollario: andare ogni istante di indugio, dopo la prosa dell'ultimo pezzo, a detrimento del senso e quindi del valore dell'intera esecuzione, come cosa che avrebbe potuto metterne in dubbio la assoluta gratuità. Sulla coscienza di tale gratuità, pezzo dopo pezzo, si fonda il piacere e l'orgoglio dell'adepto, che in questa assenza di scopo purifica il proprio animo allegerendolo del carco di durezze che nascendo sortiamo. Per questo si dovrebbe intraprendere un puzzle non per "passare del tempo" - che rimarrebbe comunque una forma di interesse e di giustificazione ab externo - ma solo per amore di tale cimento in se stesso, così come non sa cosa sia la lettura chi apre un libro per altro che sia il puro piacere di leggere. E dunque codesta verità imparai da mia madre: che il momento più idoneo ad incominciare un nuovo puzzle è quando siamo oberati di impegni, nell'urgenza affannosa delle cose serie, delle cose sode: quale trionfo sul mondo, allora, dedicarsi a quella sceientifica dilapidazione del tempo! Ma appunto perchè l'inutilità sia perfetta occorre che l'opera si dissolva nel momento stesso in cui si completa e completandosi si reifica: certo chi ne differisce la distruzionelo fa per contemplare ancora un pò il risultato: ma per quanto la contemplazione possa illudere del contrario, essa non è mai disinteressata. Noi infatti sappiamo che la vista del ricomposto dipinto, lungi dal rimanere un'esperienza neutra, inocula nell'esecutore l'impura idea di aver agito a quel fine - la contemplazione, appunto - e non per la devozione al bello-inutile, a quel certo tipo di bello-inutile-metodico di cui si sta qui discorrendo. Eppure - anche di ciò mia madre mi avvertì per ambagi - esistono persone che completato un puzzle lolasciano gioni e giorni sul tavolo, alla mercè visiva loro e di chiunque altro. E persone ancora più depravate che non lo disfanno mai, e che per questo incollano tutti i pezzi su un cartone o una tavola di legno sottile. E persone, infine, che arrivano al punto di appendere a una parete quella cosa tremenda, quell'aberrazione che è un puzzle incollato.
Sì, l'ortodossia del puzzle era minacciata da quelle oscenità - l'eresia fotografica, l'eresia conservativa, l'eresia incollativa, l'eresia appenditiva - e a meglio fronteggiarle mia madre ed io non solo rispettavamo la legge ma anche ne professavamo un'interpretazione restrittiva. Secondo tale interpretazione, il puzzle non doveva mai essere esibito ad estranei nemmeno casualmente, ma, come cosa affatto segreta, dovere rimanere impartecipato durante l'intera sua parabola. A tal fine, considerandosi estranei anche i familiari più stretti, essere necessario al titolare di puzzle svolgere la propria attività in camera chiusa con divieto di accesso; e nell'impossibilità di interdire l'accesso, essere sommamente raccomandabile l'abitudine di coprire il lavoro, durante le pause, con un serico velabro.
Se pertanto il devoto di essere chiamato a praticare una solenne solitudine, perchè solo nella solitudine il fruscio di quei minuscoli pezzettini si tramuterà in sermocinante sussurro. Un conto erano i puzzle a quattro mani, nei quali mia madre ed io collaboravamo come una sola persona: ma quando uno di noi aveva il personale suo proprio, mai l'altro avrebbe preteso aiutare, mai pur incombere con losguardo come a suggerire di avre visto una mossa. Nondimeno era pressochè impossibile, passando vicino all'opera incustodita dell'altro, resistere alla tentazione di inserire almeno un pezzo: in tal caso era però deontologico, prima di andarsene, disinserire quel pezzo ricollocandolo là donde lo si era prelevato, e a suo tempo avvertire: "Ti misi un pezzo, tel tolsi". Entrambi, del resto, avevano raggiunto un tale dominio della materia che anche la più piccola alterazione non ci sarebbe sfuggita.
La solitudine... La solitudine del prigioniero, la solitudine del demiurgo. Seguendo le orme materne imparai la frammentorietà del mondo e la discontinuità dell'essere, imparai ingenuamente le vie della gnosi, imparai che non si dà sapere che non riconduca il molteplice all'uno e non dia forma all'informe; che le monadi tengono della favola perchè nessun frammento potrà mai esaurire il disegno; che sconnesso dalla sua sede ogni ente decade: e tuttavia e finalmente, che al senso del cosmo non concorre qualità od essenza qualsia ma solo il principio di quantità nelle sue determinazioni di computabile somma e di istoriabile serie. Giustapporre, associare, legare per congruenza di forme assecondando le analogie ed esaltando le compatibilità! Decifrare gli enigmi non sulla mistica strada dei filosofi e dei teologi ma con l'animo del cartografo e dell'archivista, del lessicografo e del naturalista! Capire che il grande sapiente non è Platone, ma Ramusio, non Hegel, ma Linneo! Intravedere una linea analitica al faustismo! Per questo, per questo miraggio di una estensione orizzontale del sapere servivano puzzle sempre più grandi.
In Italia non si reperivano scatole superiori ai dodicimila pezzi. Esauriti tutti quelli disponibli sul mercato, mia madre ed io ci trovammo presto nella penosa condizione di dovere attendere che la ditta produttrice ne distribuisse di nuovi: poichè questo avveniva a un ritmo assai più lento della nostra velocità di esecuzione, ne conseguiva che se non volevamo aspettare troppo dovevamo ripiegare su pezzature da diecimila o ottomila in vero ormai umilianti. Certo potevamo riaffrontare un dodicimila già fatto, ma questa del rifacimento era questione troppo delicata perchè potessimo introdural così alla leggera nei nostri discorsi; pur non condividendo l'intransigenza di grandi maestri che si erano pubblicamente pronunciati contro l'ipotesi ripetitiva, una replica era così troppo dubbia perchè noi due non la effettuassimo senza disagio.
Quando su un catalogo specializzato trovammo notizia di una Tentazione di Sant'Antonio in quindicimila pezzi prodotta da una piccola ditta alsaziana per il bicentenario del Museo de Arte antiga di Lisbona ne ordinammo immediatamente due copie, quali poi svolgemmo ognuno per conto proprio con soddisfazione suprema; in quell'occasione anticipai mia madre di un giorno e una notte. Fu poi la volta di una Ronda di notte in ventiquattromila pezzi, acquistata per telefono da una Casa d'Aste di Buenos Aires; il catalogo non recava indicazioni di fabbrica, così fu una vera rivelazione, all'apertura del pacco, scoprire che si trattava di un esemplare unico al mondo , realizzato nel 1930 da un artigiano per un amatore uruguagio. Del quadro di Rembrandt avevamo già avuto un'esperienza da cinquemila: la diversità fu tale da farci giurare reciprocamente che mai avremmo lasciato alcunchè di intentato pur di concederci ancora un simile piacere.
Fu così che ebbe inizio la nostra rovina economica. Divenimmo intrinseci di fotografi d'arte, stampatori e fustellatori, cui commissionammo ogni nostro antico sogno: la Cisterna di Sironi in diciottomila pezzi, il particolare della targa di un cavallo di Fattori in ventimila, una china acquerellata di Kubin in venticinquemila, un Velàzquez e un de La Tour in trentamila, il Giudizio Finale di Roger Van der Weyden in quarantamila, la Pietà di Duccio da Buoninsegna in cinquantottomila, una livida alba di Turner in settantaduemila. E come quelle montagne di pezzettini non erano mai abbastanza alte, così non c'era tavolo che offrisse una base sufficiente. Già diecimila pezzi erano considerevoli problemi di spazio: superare tale soglia significava dover ricorrere a piani sospesi e paranchi mobili, oppure lavorare direttamente per terra, oppure ancora, quando nemmeno il pavimento è capace, accettare di ripartire il puzzle in settori da eseguire separatamente in più stanze o in più tempi. Allora, percorrendo stretti camminamenti fra i mosaici e le tessere sparse, ci aggiravamo dentro la casa come posatori bizantini, in volumi perpetuamente invasi dalla sospensione del pulviscolo di cartone che ogni puzzle lascia in residuo; ho il sospetto, anzi la certezza, che quell'aereo plancton non facesse bene alla nostra salute: ma noi lo si attraversava a cuor leggero, e quando i raggi del sole lo illuminavano ci sembrava una... una chiamata.
La nostra ansia di perfezione non conosceva limite. Se già da molti anni avevamo preso l'abitudine di rinunziare a guardare l'immagine di riferimento (tanto da arrossire all'idea che c'era stata un'età precedente in cui avevamo indulto a quella pratica volgare), e se in concomitanza della penuria dei dodicimila eravamo talvolta ricorsi all'espediente di mescolare insieme i pezzi di due identici puzzle da seimila (che poi identici non essendo per via dell'irripetibilità di ogni trafilatura non consentivano l'intercambiabilità dei pezzi, moltiplicando al contrario, per necessità sceverativa, i fronti ambigui del cimento), ora mia madre ed io ci inoltrammo nell'esplorazione di più fantastiche vie. Ordinammo quattro puzzle da venticinquemila raffiguranti ciascuno una diversa Madonna del Giambellino: discioltili in un unico serbatoio, conoscemmo l'ebrezza di assegnare tutti quei blu ai quattro simillimi ma differenti panneggi. Decidemmo di realizzare un puzzle a scacchiera, mettendo un pezzo sì e uno no in modo che si toccassero solo con gli spigoli: saggiato con un Sebastiano del Piombo da ventimila, il metodo fu perfezionato con un Gauguin da trentottomila, nella quale occasione eseguimmo anche una seconda scacchiera, complementare e negativa della prima. Ci spingemmo in questa direzione fino a stabilire di disporre i pezzi secondo una complessa successione algoritmica: ma di questo esperimento, di cui per altro fu oggetto un semplice Seurat da diecimila, non serbo un ricordo significativo. E naturalmente, eseguivamo puzzle capovolti, di ogni dimensione e pezzatura; per elevare alla sua potenza tale difficoltà, facemmo fustellare cartoni grigi su entrambi i lati con politura e patinatura double-face. Nell'impossibiltà di aumentare a dismisura il numero dei pezzi ci aveva preso come una mania sottrattiva: abolita l'immagine, fu giocoforza pervenire alla completa abolizione della dimensione visiva, risultato che ottenemmo operando al buio per mera sensibiltà digitale; su questa strada, tuttavia, ed è cosa che non posso rivelare senza una certa pena, mia madre non fu in grado di seguirmi fino in fondo. Dal canto mio, giunsi invece a lavorare con un paio di guanti per mortificare la virtù dei polpastrelli.
Fra un puzzle e l'altro solevamo svagarci con esercizi mnemonici, il più elementare dei quali consisteva in questo: prelevato un pezzo da una delle centinaia di scatole, uno di noi invitava l'altro a riconoscerne la provenienza; la risposta andava articolata come segue: "Paul Cèzanne, Paesaggio normanno, olio su tela, 1891, kunstmuseum di Berlino, trentamila unità, frammento di tronco di quercia"; "Simone Martini, La maestà, affresco, 1315 circa, Palazzo Pubblico di Siena, quarantamila unità, frammento di aureola dell'Arcangelo Gabriele".
Adesso si è fatto veramente tardi. Potrei raccontare ancora tante cose, ma non ne ho la voglia nè il tempo: vi dico che è tardi.
Di tanta memoria, di tutta la mia memoria, scelgo di portarmi nel nulla quel cortese fruscìo, le screpolature nell'oro delle tavole medioevali, la misteriosa dolcezza di certi verdini.
24 commenti:
Foto di Peter Marlow
Inghilterra. Londra. 1996
Un puzzle delle barche di Monet.
Un amore viscerale per i puzzle che ha scandito la sua vita. Davvero un passo originale e coinvolgente.
Ma anche tu ami fare i puzzle?
wow, che blog denso di cose interessanti.
il penultimo post l'ho apprezzato molto
@Daniele: ...si, anch'io amo fare i puzzle ma di certo non mi sono mai neanche avvicinata a simili livelli...
Sono contenta che ti sia piaciuto =)
A presto!
@sR: benvenuto e grazie :)
Una volta, una vita fa, un puzzle di 3 mila pezzi. Un'estate in un fresco paesino collinare, tra i monti ed il mare...
Veramente originale il passo che ci hai proposto
Una serena notte
saba
In fondo i puzzle,così visti,oltre che un originale racconto di vita ne sono anche la metafora.Tribolazioni ed esaltazioni alla ricerca degli incastri giusti,la caducità del divenire che si disfa appena si compie,i goffi tentativi di renderlo eterno conservandone copia,i giochi di rimandi e analogie che ne conseguono......
Un abbraccio
le foto che scegli sono sempre molto belle e particolari!
vedo che anche tu hai inserito un autore nel tuo blog...
Twilight è comunque un libro molto adolescenziale.... però, secondo me, aiuta a rivivere le prime cotte ...
anche il libro di Michele Mari è veramente interessante...
buon martedì
^_____________^
Scusami se passo solo adesso. Ma ho problemi con il lavoro e con tutto il resto. Ho decisamente il tempo esatto per non far mancare la mia mancanza (e sì, sono perfettamente serio quando dico che "manco" u.u)
Il pezzo che hai tratto è stupendo. E credo che me lo andrò comprare questo stesso giorno. Ecco perchè adoro questo piccolo mondo di bit che è il tuo blog.
Non mi lascia quasi mai (dico quasi perchè poi ti monti la testa u.u) a bocca asciutta. Grazie.
Ciao Silvia ben tornata ...
Eh si un puzzle ci vorrebbe ogni giorno della nostra vita ... per cercare gli incastri giusti ....
@Sabatino: anche a me i puzzle ricordano cose, soprattutto persone, che sembrano ormai appartenere ad un'altra vita...
A presto!
@Jaenada: gran bella metafora :) proprio così, hai colto nel segno...
Siamo sulla stessa lunghezza d'onda.
Un abbraccio a te!
@Pupottina: questa foto ci sta proprio bene vero?! :)
Il libro di Mari merita, non fartelo scappare...
Buon fine martedì!
@Le Favà: ma figurati, non ci sono problemi, passa pure quando vuoi e quando più ti fa comodo, il blog non scappa da nessuna parte!
Se leggerai il libro fammi sapere cosa ne pensi, comunque credo che ti piacerà.
...Grazie mille a te, ne sono lusingata :)
p.s.non preoccuparti, non mi monto la testa così facilmente :P
@Luciano: ciao! Bentornato da queste parti :)
Semplicemente stupendo questo passo...
Complimenti per la scelta!
Un bacione! =D
...il livello è troppo alto per me!
ripassero', eh ehe he...
Lo voglio leggere con calma, ma, chiapperi, non trovo il tempo. Mi piacerà anche se non amo i puzzle?
@Aldievel: complimenti a te per la scelta del libro e grazie per avermelo passato prima ancora di averlo letto ;)
Un bacetto...
@indierocker: non credo sia troppo alto per te, forse è troppo lungo ;P ma non ho potuto fare a meno di postarlo, mi è piaciuto troppo!
A presto...
@Alligatore: credo proprio ti piacerà comunque, fai pure con calma :)
una brano che meritava riproporre, assolutamente denso e palpitante
Sussurri obliqui
Mai riuscito a finire un puzzle...proprio mai e perdevo sempre qualche pezzo.
Ho assistito tempo fa a un paio di lezioni di Mari in statale a milano. tipo burbero.
@Progvolution: sicuramente denso ;P
@and: sarà una qualità dei professori di letteratura italiana :)
Il brano e' eccezionale ma scritto cosi' denso che rovina il puzzle dei miei occhi
ovviamente scherzo
ciao Michele pianetatempolibero
Buon werekend cara......
Scrive bene, con molta disciplina. Anche in questo si vede che è un appassionato di puzzle. Mi ricorda Auster (ma forse è solo perchè ho da poco letto un'intervista allo scrittore americano).
Ricevere un premio a volte è seccante (...uffa, che palle!), a volte è solo un'opportunità in più di scrivere qualcosa di nuovo e interessante. Sono sicuro che per te sarà la seconda che ho detto... perchè ti ho appena assegnato il Premio Symbelmine. Ti prego, non serbarmi rancore.
Per le dotte motivazioni fai un salto sul mio blog.
Ho un amore incondizionato per i puzzle. Sulle pareti ho 6 puzzle di Escher (monotematico forse, ma mi catturava)
Bel pezzo, complimenti.
Ciao sono passato salutarti.
che ne pensi di dare un giudizio al mio ultimo post relativo ai ragazzi di oggi?
Hai scelto un bellissimo estratto, adatto per fare qualche riflessione.
La nostra vita stessa è un gioco di incastri, equilibri, pezzi giusti da mettere e su cui costruire e andare avanti. Forse la vita stessa in certi momenti è un puzzle.
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