giovedì 22 gennaio 2009

Una storia argentina


Questo articolo che vi propongo di leggere è su un fumetto il cui protagonista è l'Eternauta, un eroe perso nell'eternità, un eroe reale che s'incarna nel suo stesso sceneggiatore.
Una storia inquietante, di dolore, del terrore, di libertà depredata, di silenzi, di coraggio e di resistenza...
Una storia per non dimenticare la Guerra Sucia (guerra sporca) e i desaparesidos.
Una storia come tante altre purtroppo.


Nel linguaggio dell'eternauta, quest’anno Héctor Germán Oesterheld (Hgo) compie 89 anni. Figlio di un ebreo tedesco e di una basca spagnola, Hgo è nato a Buenos Aires il 23 luglio 1919. La data della morte è sconosciuta. Nella storia drammatica dell’umanità, forse l’eufemismo più orribile è quello di desaparecido. “Non sono vivi né morti: sono scomparsi”. Quest’aforisma si deve al dittatore argentino Jorge Rafael Videla. Hgo è un desaparecido, il numero 7.456 della lista Conade (Commissione nazionale sui desaparecidos). Si sa che la vigilia di Natale del 1977 i suoi sequestratori gli tolsero il cappuccio e lo lasciarono a occhi scoperti per cinque minuti. Hgo salutò uno per uno i suoi compagni di prigionia e cantò con un giovane detenuto-desaparecido la canzone Fiesta di Joan Manuel Serrat. Anche le sue figlie sparirono: prima Beatrice (19 anni), poi Diana (23 anni), poi Estela (24 anni) e per ultima Marina (18 anni). Hgo è uno dei più straordinari creatori di avventure del novecento. Con lui è cambiato il profilo dell’eroe. L’Eternauta, la sua opera principale, una storia commovente e profetica, va oltre le frontiere della politica e dei generi letterari. E ogni giorno diventa un classico per i suoi lettori. È un’opera omerica del fumetto che mette in discussione il genere umano. “Dopo aver letto Oesterheld non possiamo più accettare di leggere delle cose qualsiasi”. Non l’ha affermato un critico qualunque in un raptus di magnanimità. Lo ha detto El Negro. L’ha detto Roberto Fontanarrosa. Rispettato da ogni tifoseria, da quelli del River e del Boca, e su qualsiasi campo di calcio o di letteratura. Anche in fondo e a sinistra, in qualsiasi redazione, dove di solito siedono i censori. E i cinici. La storia di dove si siedono i censori è di Enrique Medina. Medina ebbe il coraggio di andare nell’ufficio della censura, proprio prima del colpo di stato, a chiedere notizie del suo libro Las hienas. Che astuzia. E poi ricevette una telefonata: “Ma sei stupido!”. Che mania questa degli eufemismi. La paura che mettono gli eufemismi. Meglio sentirsi dire: “Il tuo becchino ha inito le ferie”. Ma torniamo a noi. Ci sono due grandi industrie nella storia dell’Argentina: il calcio e il fumetto. El Negro Fontanarrosa era un esperto di entrambe. Il miglior racconto di calcio che ho mai letto è la storia di Cardaña, il numero 5 del Peñarol, prima soprannominato El Hombre e poi, più precisamente, El Hombre de Neanderthal. Cardaña, rozzo e sentimentale, per beneficenza va a trovare in ospedale un bambino in condizioni gravi. Quel piccolo tifoso, che ha i giorni contati, accoglie il suo idolo come merita: “Brutti figli di puttana, come potete perdere con quelle schiappe del Nacional?”. Ecco come scriveva El Negro: non cedeva di un centimetro, neanche una lacrima gratis. Fu lui che disse: “Dopo Oesterheld come la mettiamo?”.

Scrivere come un pazzo
Quando studiava geologia all’università, lavorava già come correttore e scriveva storie come un pazzo. Quando lavorava come esperto di oro e platino per il Banco de crédito industrial de la República Argentina scriveva articoli e storie come un pazzo. Quando vagava sui monti e sulle pianure come Robinson Crusoe scriveva storie come un pazzo. Gli offrirono di lavorare a Topolino e accettò, perché non era un apocalittico della cultura e quello che gli piaceva era scrivere storie come un pazzo. Scrisse letteratura per l’infanzia, molta sotto lo pseudonimo di Sánchez Puyol. Fu l’epoca d’oro di quel genere narrativo nell’Argentina degli anni quaranta e cinquanta, con Gatitos e Bolsillitos. Gli piaceva scrivere per l’infanzia. “I bambini sono trattati sempre come degli stupidi”. Fu anche l’epoca d’oro del fumetto argentino, quando fondò con il fratello Jorge la casa editrice Frontera e uscirono due pubblicazioni che avrebbero fatto la storia. Hora Cero e Frontera. Avevano una tiratura di circa centomila copie. Cos’aveva a che fare Hgo con l’industria culturale? Scriveva come un pazzo. In trent’anni scrisse le sceneggiature di almeno centocinquanta serie di fumetti collaborando con una cinquantina di disegnatori. Sempre prolifico ed esigente. Perché scelse il fumetto? Avrebbe potuto essere un grande scrittore? È bello parlare con Martín Mórtola e Fernando Oesterheld, i suoi nipoti. “Voleva demolire l’artificiosa opposizione tra alta e bassa cultura. Non aveva pregiudizi elitari. Voleva arrivare alla gente e non lo considerava un obiettivo incompatibile con la qualità. Questa è un’altra delle lezioni dell’Eternauta, un’opera d’avanguardia che ha raggiunto le persone, una grande avventura e una letteratura straordinaria”...Jorge Luis Borges era ammaliato dall’universo Oesterheld. Inoltre Hgo era uno straordinario creatore di fantascienza non troppo fantastica. “Leggeva le riviste scientifiche più all’avanguardia di tutto il mondo”, ricorda Elsa Sánchez, sua moglie. Ha riempito l’Argentina e altri paesi di gente interessante. Ray Kilt, Sargento Kira, Indio Suárez, Bull Rocket, Ernie Pike, Ticonderoga, Randall, Sherlock Time. E il gruppo, l’eroe collettivo, dell’Eternauta.
Quando passò alla clandestinità e sapeva di essere perseguitato da Loro, cosa faceva Oesterheld? “Scriveva come un pazzo”. Gli diedero la caccia, lo fecero sparire, gli succhiarono il sangue. Cosa faceva Oesterheld? Ana María Caruso, dalla prigionia del centro clandestino di detenzione chiamato Sheraton, riuscì a scrivere una lettera che compare nel rapporto Nunca más della Commissione nazionale sui desaparecidos: “Adesso è con noi El Viejo, l’autore dell’Eternauta e del Sgt. Kirk. Ve lo ricordate? Il povero vecchio passa le sue giornate a scrivere fumetti che inora nessuno dà segno di voler pubblicare”. Scriveva come un pazzo.

Fango sugli stivali
Nessuno, dopo aver letto l’Eternauta, potrebbe più accettare di leggere delle cose qualsiasi. Cambia lo sguardo. È una di quelle opere che sanno “mordere nella stupidità” come piaceva a Franz Kafka. O come piaceva a Emil Cioran: “Un libro dev’essere un pericolo”. “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. Chi grida queste parole? È lo sceneggiatore, Oesterheld, alla fine dell’Eternauta. Non è fuori, ma dentro, in una vignetta. Una delle idee dirompenti di Oesterheld fu quella di entrare a far parte dell’opera come personaggio. Un coraggio formale che avrà molte conseguenze. Siamo nel 1957. Francisco Solano López (Buenos Aires, 1928) lo rende riconoscibile. Lo disegna con i suoi tratti. All’inizio della trama l’Eternauta appare allo sceneggiatore nella mansarda in cui lavora e gli racconta la sua storia di eroe perso nell’eternità. Alla fine l’Eternauta riesce a tornare a casa dalla moglie e dalla figlia, che lo rimproverano per averci messo mezz’ora a comprare il giornale. Mezz’ora? Lo sceneggiatore, Oesterheld, il nostro Hgo, cerca di dissuadere l’Eternauta. Tutto quello che gli ha raccontato, tutto quello che sta per succedere! La nevicata mortale, l’invasione guidata da un potere oscuro, Loro, che usano per i loro fini i terribili mostri e gli intelligenti kol, schiavi della paura, che a loro volta trasformano gli umani sopravvissuti in uomini-robot. Ma l’Eternauta non riconosce più lo sceneggiatore. Tornando nel passato, ha perso la memoria del futuro. La memoria passa allo sceneggiatore. Chi è adesso l’Eternauta? Siamo nel 1957. Hgo grida dal fumetto: “Cosa fare? Cosa fare per evitare tanto orrore?”. È la prima versione dell’Eternauta. Nel 1969 ci sarà una seconda versione, disegnata da Alberto Breccia, in cui le coordinate geopolitiche sono più precise. La pubblicazione solleva molte polemiche. La rivista Gente ne forza il finale. L’Eternauta diventa un personaggio inquietante, troppo verosimile. Nel 1976, con i disegni di Solano López, si pubblica un seguito dell’avventura, una seconda parte. È un processo pieno di ostacoli. Sceneggiatore e disegnatore si vedono appena. Hgo sente sul collo il fiato di Loro e detta capitoli dalle cabine telefoniche. Le ultime volte in cui va alla casa editrice Récord, che doveva pubblicare l’Eternauta II, si presenta sempre a orari assurdi, come un’ombra. A tradirlo è solo “la scia di fango secco dei suoi stivali” sul tappeto. Perché uno dei molti rifugi di Hgo era l’isola del Tigre.

La tecnologia infernale
Erano arrivati Loro, come l’Eternauta avrebbe chiamato i dittatori. Nel prologo di Ernesto Sábato al rapporto Nunca más, in cui si documentano gli orrori della dittatura e l’usurpazione dello stato da parte di una mafia in uniforme, c’è scritto: “Dalle informazioni in nostro possesso si desume che questa tecnologia infernale fu applicata da esecutori sadici ma ben inquadrati”. Insieme a migliaia di desaparecidos, la “tecnologia infernale” si portò via Hgo e le sue quattro figlie. Erano già passati alla clandestinità quando cominciò la dittatura argentina, che durò sette anni crudeli (1976-1983). L’unico cadavere che Elsa riuscì a recuperare fu quello di Beatriz. A 19 anni fu la prima vittima di Loro. Il 19 giugno 1976 Beatriz chiamò la madre e le dette appuntamento in un bar. Due giorni dopo sul treno, mentre Elsa andava al lavoro, un uomo molto nervoso con un vestito elegante si avvicinò per dirle che sua figlia era stata sequestrata da un “gruppo di lavoro” dell’esercito. Elsa Sánchez de Oesterheld cominciò il pellegrinaggio per ritrovare Beatriz, ma sull’Argentina era davvero caduta una “nevicata mortale”. Si scontrò con muri di silenzio. I conoscenti facevano finta di non conoscerla e perfino suo nipote Jorge Oesterheld, un sacerdote potente che oggi è portavoce della conferenza episcopale argentina, preferì “guardare dall’altra parte”. Elsa sapeva di essere diventata un pericolo per le figlie. Tutti i suoi movimenti erano sorvegliati per arrivare alle ragazze e a Hgo. In un certo senso anche lei era una desaparecida apparentemente in libertà. Lo sterminio programmato della famiglia di Hgo continuò: a Tucumán il 4 luglio 1976 scomparve Diana, 23 anni, incinta; il 27 aprile 1977 fu sequestrato Hgo e il 14 dicembre dello stesso anno sparì Estela, 24 anni. Nella sua ultima lettera, scritta quel giorno, dice: “Mammina: è un mese che Marina non è con noi”. Significa: Marina è scomparsa. Aveva diciott’anni.


La tortura metafisica

Loro, con le bande di gurbos, mostri e uomini-robot, applicarono la tecnologia infernale su scala industriale. Per far sparire i cadaveri usarono una variante dell’incinerazione: i voli della morte. Forse pensavano che la scomparsa sottomarina di migliaia di persone sarebbe stata inodore, innocua e impercettibile. Il più grande detective della storia, Sigmund Freud, scrisse: “Censurare un testo non è difficile, più difficile è cancellarne le tracce”. I carnefici ignoravano che anche il corpo umano è un testo. E questa è la verità di fondo dell’Eternauta, la ragione della sua forza a distanza di così tanti anni. “La persistenza dell’Eternauta di per sé è un modo per non dimenticare”, scrive Judith Filc. Nel primo anniversario del golpe militare, il 24 marzo 1977, un altro geniale eternauta argentino, lo scrittore Rodolfo Walsh, compagno e collega in molti sensi di Hgo, spedì per posta e distribuì clandestinamente la Carta abierta de un escritor a la junta militar (lettera aperta di uno scrittore alla giunta militare). È uno dei pamphlet di denuncia più commoventi della storia, in cui Walsh fece conoscere al mondo la dimensione del genocidio: quindicimila desaparecidos fino a quel momento. “Siete arrivati alla tortura assoluta, atemporale, metafisica”. In questo contesto la parola metafisica, associata alla tortura, perde tutta la sua astrazione ed esprime l’incommensurabilità dell’orrore vissuto nella realtà. Durante una perquisizione della sua vecchia casa, dove viveva solo Elsa, l’ufficiale mostro al comando del “gruppo di lavoro” spiegò che stavano dando la caccia a Héctor l’ebreo. Elsa rispose che suo marito era figlio di un proprietario terriero tedesco e di una spagnola. Poi aggiunse: “E anche se fosse ebreo?”. Tra le cose che ispirarono Loro per mettere in pratica la “tecnologia infernale”, la tortura e la scomparsa forzata di migliaia di persone, come Hgo e le sue quattro figlie, ci sono alcuni metodi nazisti. Per esempio, un ordine di Hitler, il decreto Nacht und Nebel, notte e nebbia. Il testo di questo decreto, ricostruito dal tribunale di Norimberga, sconsigliava la consegna del cadavere della persona eliminata alla famiglia. L’obiettivo era “disseminare il terrore” per indebolire qualsiasi resistenza. Nel 1977, il periodo in cui Hgo fu detenuto, il generale Ibérico Saint Jean, governatore della provincia di Buenos Aires durante i fatti della notte delle matite spezzate (scomparsa e omicidio di un gruppo di adolescenti), dichiarò in pubblico e senza eufemismi: “Prima uccideremo i sovversivi, poi i loro simpatizzanti e per ultimi gli indifferenti”. Tra le migliaia di desaparecidos ci sono un centinaio di poeti, scrittori e sceneggiatori di fumetti. Un altro Loro, un collega militare del generale Ibérico, il comandante Luciano Menéndez che guidava il III corpo dell’esercito e fu il responsabile dei roghi di libri del 29 aprile 1976, dichiarò: “Così come distruggiamo con il fuoco la documentazione perniciosa che offende l’intelletto e la nostra cristianità, distruggeremo anche i nemici dell’anima argentina”. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte. Gridando ad Antigone, alle figlie di Oesterheld: “Se la tua natura è amare, va’ tra i morti e amali. Finché io avrò vita non comanderà una donna”.

Ernie Pike
Quando creò Ernie Pike, uno di quei grandi personaggi che cambiarono il profilo dell’eroe rendendolo una figura complessa, fatta di carne e ossa e non d’acciaio, i primi episodi furono disegnati da Hugo Pratt. Quando vide il fumetto, Hgo rimase perplesso: il volto di Ernie Pike, corrispondente di guerra che mette sempre in dubbio le versioni ufficiali, era il suo. E lo videro anche i torturatori: riconobbero in Hgo Ernie Pike. E quindi ci andarono giù pesanti con Ernie Pike. Elsa Sánchez de Oesterheld mi racconta un’altra storia che la lasciò a bocca aperta. Qualche anno fa, nel 2002, alla ine di un incontro, le si avvicinò una donna, una dottoressa che era stata rapita, detenuta nell’Esma (la scuola di meccanica dell’esercito dove furono detenute circa cinquemila persone) e sopravvissuta alla prigionia. Le raccontò che un giorno Alfredo Astiz, un ufficiale dell’Esma noto come l’Angelo della morte, tirò fuori dal cassetto del suo tavolo un libro e le disse più o meno così: “Prendi e leggilo. È il miglior libro d’Argentina”. Era l’Eternauta. In quell’episodio uno dei personaggi si lamenta: “Tutti scomparsi… come se non fossero mai esistiti”.

Un incarico per Hgo
Siamo nel 2008. Il 23 luglio, se fosse ancora vivo, Héctor Germán Oesterheld avrebbe compiuto 89 anni. La sua condizione terrena è quella di desaparecido forzato. Fu sequestrato da uno di questi eufemismi criminali chiamati “gruppi di lavoro” e fu detenuto in almeno tre carceri clandestine, ovvero in dei non luoghi: Campo de Mayo, El Vesubio e Sheraton, dov’era conosciuto come El Viejo, il vecchio. Gli indizi e le prove circostanziali fanno presumere che Hgo morì all’inizio del 1978. Non c’è traccia del cadavere. Il rifiuto era la risposta sistematica che ricevevano le migliaia di ricorsi. Per quanto si sa, all’inizio Hgo fu maltrattato e torturato. Poi, su iniziativa di un militare, cercarono di coinvolgerlo nella stesura di una biografia del libertador San Martín. Oesterheld si era fatto conoscere come biografo. Già nel 1951, quando scriveva libri per bambini, Perón avrebbe voluto che lavorasse alla sua biografia. Lui riuscì a dire di no. La moglie Elsa pensa che da quando scrisse Che (Rizzoli 2007), illustrato da Alberto Breccia e da suo figlio Enrique, Hgo fu segnato. La biografia del Che fu pubblicata nel 1968, in piena dittatura di Onganía. L’editore gli aveva proposto di farla uscire come opera anonima, ma Héctor rispose: “Un personaggio come il Che non merita che un lavoro su di lui sia fatto di nascosto”. Il libro ottenne un successo immediato. La prima edizione andò a ruba in un mese, ma la casa editrice fu perquisita e Breccia e Oesterheld furono minacciati di morte. Poi avvenne una cosa strana. Ricevette una telefonata dall’ambasciata degli Stati Uniti. Gli proposero di scrivere qualcosa di simile, una biograia sullo stesso stile, altrettanto immediata e diretta, ma su John F. Kennedy. Hgo declinò l’offerta. Era già pronta quella di Evita. Non fu pubblicata: non ci sarebbero state più biografie. E adesso in prigionia se ne uscivano con San Martín! Non si sa a che punto arrivò né che ne fu dei suoi appunti. La vita di San Martín raccontata da Oesterheld? Probabilmente Loro si resero conto del possibile scivolone: se la biografia fosse stata portata a termine avrebbero dovuto far sparire San Martín. Le statue si sarebbero messe a parlare e sarebbero finite in fondo al mare.

Una strana visita
La tortura peggiore a cui sottoposero Oesterheld, a parte il tormento fisico, fu quella di mostrargli le foto delle figlie morte. Loro, come Creonte, punivano oltre la morte, mostrando i diversi cadaveri di Antigone. A Elsa restituirono solo il corpo della prima figlia uccisa, Beatriz, “quella che somigliava più al padre”. Poi sparì Diana, 23 anni, con il suo compagno, Raúl. Dopo fu la volta di Marina, diciotto anni. Sopravviveva Estela, la più grande, di 24 anni. C’è una testimonianza sul periodo di detenzione di Oesterheld nel carcere clandestino di Campo de Mayo. Juan Carlos Scarpatti disse: “Non lo conoscevo personalmente, ma attirò la mia attenzione. Lo vidi, diciamo, abbattuto, molto angosciato. Allora mi avvicinai e gli chiesi cos’aveva. Mi disse che gli avevano mostrato le foto delle figlie. Dei loro cadaveri”. Ma la notizia della morte di Estela e di suo marito – anche lui si chiamava Raúl – la ricevette quando i carcerieri dello Sheraton gli dissero che c’era una visita speciale per lui. L’hotel Sheraton, eufemismo per il non luogo, era un altro centro di detenzione clandestino che si trovava in un settore nascosto del commissariato di Villa Insuperable, all’interno della città. Era il 14 dicembre 1977. La “visita speciale” era di un bambino di tre anni, suo nipote Martín. Quel giorno avevano ucciso i suoi genitori. Ancora oggi Martín ricorda di essere rimasto seduto per ore con suo nonno in un “corridoio orribile con delle pareti di lattice blu brillante”. Difficile non vederlo come un episodio dell’Eternauta fatto piombare nella realtà. El Viejo e il nipote che ha conosciuto a malapena, insieme in un non luogo dove ti succhiano il sangue. Sono ottocento i bambini rubati all’epoca di Loro, e solo novanta sono riusciti a tornare alle loro famiglie di origine. Un’altra ramificazione della “tecnologia infernale”. Due nipoti di Hgo ed Elsa, i figli di Diana e Marina, sono desaparecidos. La comparsa di Martín nel non luogo, il fatto che qualcuno abbia deciso di portarlo dal Viejo, che tutti credevano morto, è un episodio che può avere un’interpretazione morbosa, ma può anche essere visto alla luce del l’Eternauta. Forse è stata opera di un kol. I kol, subalterni intelligenti di Loro, diventano disobbedienti quando la “ghiandola del terrore” smette di funzionare. Per una volta Oesterheld dette un indirizzo, quello dei genitori di Elsa. Martín fu portato dalla nonna. Antigone dalla morte mandava un segnale.

Il passerotto combattente
Ana di Salvo, psicologa, compagna di prigionia di Hgo nel centro di detenzione illegale del Vesubio, mi racconta che Oesterheld rimaneva sempre in disparte, diffidente. Parliamo del maggio del 1977, quindi non era da molto che lo avevano arrestato. “Ci dissero: ‘Arriverà El Viejo’. All’inizio non sapevo chi fosse. Non conoscevo la storia dell’Eternauta. Aveva un problema di pelle, era pieno di foruncoli in faccia e sulla testa. C’era una dottoressa tra le detenute. Gli diede una pomata, ma lui la riiutò. Era diffidente. Una notte in cui faceva molto freddo e stava dormendo sul pavimento di legno gli offrimmo una coperta. L’accettò. Ma sempre con un’aria di diffidenza. La mattina lo venivano a prendere e lo riportavano la sera. Ci raccontò che gli stavano facendo scrivere una storia su San Martín. Gli parlai di mio figlio Luciano. Gli chiesi di scrivermi una poesia, una storia per lui. Ma non ci fu tempo. Dopo avermi fatto sparire senza spiegazioni per 73 giorni, mi riportarono a casa. Pensi continuamente che stanno per ucciderti. Nel viaggio verso casa, guardando il paesaggio, uno dei sequestratori disse: ‘Buon posto per la caccia’. E io, non so perché, gli risposi: ‘Qui c’è il divieto di caccia, va rispettato’. Rimase perplesso. Le cose vanno così. Mio figlio Luciano, quando tornai, non voleva saperne di me. Pensava che l’avessi abbandonato di proposito. Un giorno gli comprai un racconto per bambini intitolato Chipió, el gorrioncito peleador (Chipió, il passerotto combattente). A Luciano piaceva molto la faccia di quell’uccellino. Imparò a leggere con lui e il libro ci riconciliò. Non sapevo che l’avesse scritto El Viejo: aveva usato uno pseudonimo. Molti anni dopo, in una mostra su Oesterheld, raccontai la storia a Martín, suo nipote, e lui mi disse: ‘In quel racconto c’era quello che mio nonno scrisse per tuo figlio’”.

L’ultima lettera
L’ultima lettera di Estela a sua madre fu scritta il giorno in cui fu uccisa, il 14 dicembre 1977. È breve, scritta in gran fretta ma curata, con una grafia che cerca di rimanere ferma. Ogni lettera, ogni appunto in quei giorni trasudava nervosismo. Si ha l’impressione che la lettera a Elsa sia anche una lettera che Estela sentì il bisogno di scrivere a se stessa. Non è dificile immaginarla mentre la rilegge a bassa voce tra sé e sé, sforzandosi di dare alla madre la notizia della morte di Marina senza nominare la morte. Come nell’Eternauta, il tempo della lettera è un continuum 4, una specie di futuro del passato: “Marina non è più con noi e questo dolore non lo si può più alleviare, in nessun modo, ma voglio che tu sappia che è morta eroicamente così come ha vissuto”. Consonanti e vocali si accatastano in un presente ricordato: “Credo che dobbiamo essere orgogliosi di lei, così come di Bi (Beatrice), Di (Diana) e Dad (Héctor), e voglio che tu sappia che sono orgogliosa anche di te (Elsa)”. Quest’ultima affermazione ha un significato forte. Va oltre la cortesia filiale. Tutte le persone a cui fa riferimento Estela sono scomparse. La felice nidiata di Beccar sta per essere sterminata. Elsa, la madre, antiperonista, razionale e intuitiva, “molto celta”, dice lei, non li aveva seguiti nel loro impegno rivoluzionario. Aveva discusso animatamente con Hgo, con l’uomo che amava. Sì, era d’accordo con lui. Era una gioventù meravigliosa: bella, colta, ribelle. La migliore generazione che l’Argentina avesse mai avuto. Come Héctor, Elsa passava da Mozart a Janis Joplin e, perché no, condivideva anche i gusti artistici di quella generazione, la libertà nello stile di vita, una sessualità senza tabù, l’avversione all’ingiustizia. Condivideva tutte queste cose, dice Elsa. Ma lei, la donna che era stata così felice a Beccar, in quella casa che era come un laboratorio dell’artista romantico, dove tutto “fremeva e cantava”, dove tutti approdavano e nessuno se ne voleva andare, dove nessuno voleva spegnere la luce, dove le ragazze si riiutavano di andare alle feste o nei locali perché c’era solo “gente stupida”, e allora volevano stare lì, a Beccar, con i loro amici e quelli dei genitori, disegnatori, musicisti, artisti, scrittori, gente che portava delle storie: lei, che aveva conosciuto il paradiso, riuscì a percepire con chiarezza il trambusto della macchina infernale che si stava avvicinando. Sì, discusse con Hgo. Non riusciva a digerire quella metamorfosi nell’Oesterheld che amava e ammirava, l’uomo tranquillo, illuminato, progressista e piuttosto libertario. Una trasformazione dovuta all’influenza degli amici anarchici spagnoli in esilio, quello sguardo antidogmatico che appartiene anche ai suoi eroi. Hgo non era affatto elitario. La sua stessa scelta letteraria, la sceneggiatura dei fumetti, lo dimostra. Ma provava ribrezzo per il populismo peronista. Hgo cambiò. La sua opera principale contiene anche delle tracce autobiografiche. Tra il primo Eternauta (1957) e la seconda versione (1969) c’è una rivoluzione di sguardo. I riferimenti geopolitici diventano più concreti: l’America Latina è abbandonata alla sua sorte e Loro, gli oscuri poteri cosmici, sono la grande potenza. Hgo diventò più radicale, d’altronde anche il mondo intorno cadeva a pezzi. Le pagine del calendario cadevano per paura e ribrezzo. Il golpe di stato di Aramburu, nel 1956, con l’Operación Masacre, che Rodolfo Walsh racconterà in modo brillante. Il golpe di stato di Onganía, nel 1966, quando i professori e gli alunni dell’università di Buenos Aires furono crudelmente presi a bastonate nel tragitto verso i camion della polizia. Il mandato di Lanusse, nel 1972, con il massacro di Trelew. In questo calvario di sfortunati fasti e catastroiche salvezze, il paese percepì una “scintilla di speranza” nella grande mobilitazione civile cominciata con il cordobazo (un movimento di protesta che si diffuse nel 1969 nella città di Córdoba). In seguito, chiamando in causa l’oftalmologia, potremmo dire che si passò da uno strabismo divergente a uno convergente. Il punto di convergenza fu ancora una volta Perón. Gran parte della sinistra argentina confluì nel peronismo. Per molti era la speranza possibile, un’alleanza contro Loro. E lì c’erano Hgo e le sue iglie. Elsa no: lei manteneva le distanze quando dalla musica si passava alle parole. E lì c’erano anche Rodolfo Walsh e le iglie Vicky e Patricia. Si parla quasi sempre di A sangue freddo, di Truman Capote, come prima opera della narrativa del new journalism. Ma è per ignoranza emisferica. La prima opera è stata Operazione massacro, di Rodolfo Walsh, nel 1957, l’anno in cui nacque anche l’Eternauta. Walsh, di origine irlandese, allora era anche antiperonista. Preferiva gli scacchi alla politica e anche alla letteratura. Ma un giorno, tornando a casa, udì il grido di un soldato moribondo: “Non lasciatemi solo, figli di puttana!”. Il ritorno di Perón, il grande giorno della resurrezione nazionale, passerà alla storia per il massacro di Ezeiza. Lì, all’aeroporto, cominciò lo sterminio della “gioventù meravigliosa”. Più di trenta morti e trecento feriti in quello che avrebbe dovuto essere il giorno più felice. La lusinga diventò condanna: la “gioventù imberbe”. Perón morì quando si avvicinava il giorno della “nevicata mortale”. Il padre della patria era tornato con la mummia di Evita e un suo fantasma, Isabel, manovrata da un sinistro prestigiatore, il segretario López Rega, organizzatore della Tripla A, che mescolò la stregoneria alla produzione industriale della morte. Si moltiplicò il doppio lavoro: molti di quelli che di giorno lavoravano come capi della polizia, la notte diventavano capi della Tripla A. Fino all’arrivo del grande eufemismo, il processo di riorganizzazione nazionale. In altre parole, fino al colpo di stato militare con la sua rete di influenti complicità. Era il regime di Loro. E si mise in moto, a pieno ritmo, la “tecnologia infernale”. Walsh denuncia: “La Tripla A sono oggi le tre armi, e la giunta che voi presiedete non è l’ago della bilancia tra ‘violenze di segno diverso’ né l’arbitro giusto tra ‘due terrorismi’, ma la fonte stessa del terrore che ha smarrito la strada e riesce solo a balbettare un discorso di morte”. La lettera di Estela a Elsa iniva dicendo: “C’è ancora molto da dare in questa vita e sono molte le ragioni per andare avanti”. Quel giorno, dopo che aveva inviato la lettera, la uccisero.

Oesterheld, Hugo Pratt ed Elsa
Lui scriveva a mano. Odiava la macchina da scrivere. Per questo ho imparato stenografia e dattilografia. Per aiutarlo. Dopo esserci sposati abbiamo vissuto quattro anni in un piccolo appartamento nel quartiere Desarrollo. Allora si occupava di minerali. Amava la natura aspra, selvaggia, la steppa deserta. Quando lo conobbi era un misantropo. Poi nacquero le bambine, una dopo l’altra. Disegnava già. ‘Papà, fammi un disegnino’. Scarabocchiava di tutto per loro. Leggeva di tutto. Era abbonato a riviste in tedesco, italiano, inglese e francese. Sapeva un sacco di cose. Gli interessavano tutte le scoperte scientifiche, tutto ciò che era al limite della fantascienza. Borges amava parlare con lui. Le ragazze lo vennero a sapere. Un giorno andarono tutti e cinque insieme a trovarlo. E stettero lì con lui, nella penombra della biblioteca nazionale. Sì, aveva una cultura straordinaria, enciclopedica. Un giorno Hugo Pratt gli mostrò molto soddisfatto alcuni disegni. Un nuovo eroe. Un soldato della conquista del west. Héctor gli disse: ‘Benissimo, ma dovrai ridisegnarlo. Non può avere quel tipo di arma. Il calcio della pistola non era così’. Hugo si sedette, fece un sospiro, gridò: ‘Lo uccido, lo uccido! Dimmi, Héctor Oesterheld, a chi importa com’era il calcio della pistola?’. ‘A me’, rispose Héctor. All’improvviso si alzò e andò verso il garage. Aveva libri dappertutto. Anche in garage. Ovunque. Leggeva sessanta o cento storie alla volta. C’era un pandemonio. Quando cercavo di mettere a posto, lui si disperava. Frugò nel caos. E alla fine tornò tenendo in mano quello che cercava. Lo passò a Hugo. ‘Ecco qui’, gli disse. ‘L’arma dev’essere così’. Era molto sportivo. Giocava a tennis. Il calcio gli piaceva, ma solo da guardare. Aveva una fissazione per lo stadio del River. Quando andava in centro passava sempre di lì. In quello stadio si svolge una battaglia decisiva dell’Eternauta. È stato un periodo idilliaco, un paradiso, quando stavamo in casa a Beccar. Questo l’ho già detto, vero? Quando sono arrivati i disegnatori italiani, ma questo è successo prima, anche quella è stata un’epoca meravigliosa. Tra loro c’era Hugo Pratt (mezzi matti gli italiani!). Era un ragazzo molto bello. Aveva un carisma unico. Tutti i giorni passava da casa nostra. Aveva sempre appetito. Gli preparavo qualcosa per cena. C’erano delle amiche che mi chiedevano: ‘Ma non ti sei innamorata?’. Se ne innamoravano tutte…”. E allora? Anche Elsa, l’Elsa che oggi ricorda, è in cucina a preparare qualcosa per cena. È facile immaginare, sulla soglia della porta della casa di Beccar, Corto Maltese, il mitico personaggio di Pratt. Mormoro: “Forse era lui a essere innamorato”. Elsa mi ascolta in silenzio. E chiude il discorso sugli amori con un gesto ironico, un’interiezione tracciata in aria.

La memoria
Marcelo Brodsky, l’artista e fotografo creatore del Parco della memoria di Buenos Aires, venne a conoscenza della scomparsa del fratello minore Rubén con una telefonata. Lui era in Spagna, in esilio. L’universo acquistò improvvisamente le dimensioni di una cabina telefonica. “L’assenza di una persona scomparsa non ha mai ine. Come spiegarlo alle nuove generazioni? Come narrare un simile orrore? Nel Parco della memoria ogni percorso è un nuovo modo per ricordare. Camminiamo tra scie che si sostengono l’una con l’altra, in cui il risultato è il prodotto di una combinazione”. Brodsky ha giurato di parlare sempre del fratello come se stesse ascoltando Julius Fucik, nel suo Scritto sotto la forca: “Che la tristezza non sia mai associata al mio nome”.

Elsa l’Eternauta
Quando Elsa ed Héctor si sposarono lui lavorava per una banca di credito minerario e analizzava campioni di metalli preziosi. Gran parte del suo lavoro era sul campo. Gli piaceva camminare. Camminare da solo nei grandi spazi. Con il vento della Patagonia in faccia. “È un lavoro duro, la solitudine del geologo può essere devastante, ho conosciuto persone che hanno cominciato a bere”, racconta Elsa. “Ma lui amava questo rapporto solitario con la natura. Amava tutto della natura. Le lumache ci mangiavano le rose e io gli chiedevo di metterci il veleno, ma Héctor diceva: ‘Anche loro hanno il diritto di vivere’. Io rispondevo: ‘Guarda che qui la celta panteistica sono io, ma non voglio che mi mangino le rose’. Gli offrirono un buon lavoro, ma avremmo dovuto separarci. Allora scelse l’editoria”. Elsa è nata a Buenos Aires da una famiglia di immigrati galiziani provenienti da un paesino vicino a Santiago, Loño. Nel 1983, quando passò da Loño, Elsa andò a vedere il loro granaio di legno, quello tipico della zona, di cui tanto le aveva parlato il padre. Si aspettava qualcosa di più monumentale. “Che c’è che non va?”, gli chiese lo zio. “È scrostato”. “Tua nonna non ha voluto che lo toccassero. Ha voluto che rimanesse come l’aveva fatto il figlio”. Il figlio era il padre emigrato di Elsa. Hgo passò da quel paesino nel 1962, facendo una “deviazione” da un viaggio in Germania. C’è una foto in cui è immortalato come il Robinson che era, camuffato tra l’erba del contadino mietitore. In Argentina i genitori di Elsa lavorarono sodo per andare avanti, ma avevano una passione: la musica. L’opera e la classica. Ascoltavano tutti i concerti che trasmettevano alla radio. Lo zio Pedro portava sempre un iore all’occhiello. La madre di Elsa leggeva García Lorca. L’aveva visto in un teatro di Buenos Aires stracolmo di persone, era stato accolto dalla folla in calle Corrientes. “Somiglio molto a mio padre. Sono Vicente Sánchez al femminile, estremamente impulsiva. Ero un maschiaccio. Poi subimmo un colpo terribile: mia sorella maggiore morì quando io avevo dodici anni. Studiai musica, danza classica e samba. È vero, tutti volevano ballare con me. No, Héctor non era un gran ballerino. Avevo diciassette anni e lui ventiquattro quando ci innamorammo”. Elsa parla come un libro aperto, che contiene la sua vita e quella degli altri. Il suo sguardo corre più veloce del tempo. Dall’appartamento di Buenos Aires si sente spesso il rumore del passaggio di qualche convoglio ferroviario. I treni, la luce mutevole del giorno, tutto sembra impegnarsi a seguire la velocità, l’intensità del ricordo di Elsa, che parla felice della sua adolescenza ballerina, danzando con le parole. Poi all’improvviso si gira e dice: “Anche gli psicologi si commuovevano. Tutta l’esperienza della psicologia non bastava per affrontare il nostro caso. Mi chiedono come ho fatto a resistere, come faccio a essere ancora viva. Non lo so. Sono qui per uno strano obbligo. Ho già provato tutta la paura del mondo”. All’altezza dei nostri occhi, sullo scaffale della libreria, c’è una foto che guarda verso di noi. Sono loro. Loro quattro. In casa a Beccar. Nell’ora azzurra. Le quattro ragazze Oesterheld. Tutta la bellezza del mondo.

( articolo di Manuel Rivas - Internazionale 776, 27 Dicembre 2008)

p.s. sull'argomento vi consiglio di vedere il film di Marco Bechis Garage Olimpo (1999) se non l'avete già fatto..."Un film concreto, duro e reale, che lascia intuire senza eccessi di sadismo la violenza dei garage illegali dove si detenevano gli oppositori al regime"...

venerdì 16 gennaio 2009

La felicità porta fortuna


Sai una cosa?

- Cosa?

Noi siamo fortunate...

- Sì, è vero....Però la fortuna te la crei tu, non credi Poppy?

In alcuni è vero...Ma altri perdono il treno fin dall'inizio...

- Già è dura diventare adulti eh!

Sì è vero...E' un lungo viaggio.

...

- Fammi sapere quando arriviamo!

Tranquilla te lo dico io...Tu continua a remare che io continuo a sorridere...


Il dialogo è tratto dal film di Mike Leigh La felicità porta fortuna - Happy Go Lucky (2008). Avevo intenzione di vederlo già da tempo e finalmente ce l'ho fatta! Una cosa è certa, mette di buon umore e regala anche un pò d'ottimismo, che di questi tempi ne abbiamo davvero tanto bisogno...Ambientato in un'insolita Londra solare e colorata, con la favolosa interpretazione di Sally Hawkins, autoironica, spontanea ed anche un bel pò Kitsch. Un vero mix esplosivo!
A chi l'ha già visto posso dire che il personaggio che più mi ha colpito è l'istruttore di guida, a dir poco esilarante e soprattutto mooolto paziente! Proprio quello che ci vuole per imaparare a guidare...

Avevo bisogno di ricaricarmi per iniziare una nuova lunga settimana di lavoro (i prossimi esami attendono!) e così sabato ho partecipato ad una bella cena tra amici. Ieri sera invece come menù pizza ed un sacco di risate. Il tutto accompagnato da un leggero mal di schiena...Sabato pomeriggio devo aver esagerato un pò con gli addominali in palestra e questi sono i risultati! Nulla di grave comunque, conto di poter tornare in piena forma domani stesso.

Auguro a tutti un buon inizio settimana, sperando che sia produttiva! A presto...

domenica 11 gennaio 2009

La notte di Gaza



Dal 27 dicembre la Striscia è sotto le bombe. Cosa significa vivere ogni giorno con il terrore, perdere tutto, non avere un luogo sicuro in cui rifugiarsi?
Giustifica
Martedì 6 gennaio 2009 Maher ha capito che era ora di andarsene, di fuggire, di scappare per salvarsi, mettila come ti pare, basta che prendi i bambini, i figli dei tuoi fratelli, tua madre che ha appena avuto un'operazione chirurgica a cuore aperto, che aveva tredici anni, esattamente l'età di tua figlia quando l'esercito israeliano espulse lei e gli abitanti della sua cittadina nel 1952 (esatto, non nel 1948; avrei potuto essere cittadino israeliano, dicevi sempre per scherzo, se Israele – che allora aveva quattro anni – non avesse espulso i palestinesi rimasti nella cittadina di Majdal cacciandoli verso sud, verso Gaza); che importa se in questi quindici anni tu e tua moglie avete risparmiato ogni centesimo per poter lasciare il campo profughi dove tua madre era cresciuta e poi vi aveva messi al mondo tutti quanti e poi vi aveva mandati a scuola perché diceva sempre che il nostro unico capitale, di noi profughi, è il nostro cervello; che importa se tu hai studiato e ti sei sistemato e anche tua moglie, e non solo avete trovato dei lavori rispettabili e interessanti, e non solo avete viaggiato, ma vi siete anche fatti una casa abbastanza spaziosa; che importa se quella casa, ai margini di Gaza, adesso sarà bombardata e schiacciata e sfondata e sbriciolata e bruciata da tutte le sofisticate mutazioni hi-tech della polvere da sparo che vi sono state rovesciate addosso in questi ultimi undici giorni, undici giorni che sembrano undici anni, dicono tutti; che importa dei libri e dei computer e dei giocattoli e dei mobili andati distrutti, e la casa di tuo fratello – più a nord, in questa pericolosa terra di confine – è già stata evacuata e colpita da un missile e lui non ci prova neanche ad andare a controllare i danni, l'unica cosa che importa adesso è salvare la vita di tutti, adesso lo sai per davvero che cosa significa essere un profugo, dici, non t'importa di niente, tutto quello che avevi costruito durante la tua vita non vale più niente, ti basta lasciare i campi in fiamme ai margini di Gaza, dove l'esercito ha sganciato volantini dai suoi elicotteri pretendendo che la gente sgomberasse le case, e poi, se per caso non aveste colto l'allusione, lo stesso esercito vi ha bombardato con cannoni talmente vicini che avete potuto sentire i motori ronzare e ringhiare, poi ha usato certe strane armi nuove, bombe che esplodono e si trasformano in lame di fuoco che attecchisce ovunque, e quando provi a buttarci l'acqua non si spegne, anzi non fa che aumentare, tutti gli alberi sono andati, quello che importa è sfuggire al fuoco e alla nube di polvere e fumo, così fitta che non vedi chi hai davanti, e buttarsi a bordo di due auto, pregando il dio in cui non credi che un obice o una bomba o un missile israeliano non le prendano di mira come hanno fatto con alcune ambulanze (uccidendo alcuni dei soccorritori), e alcuni tecnici della società dei telefoni, o forse non hanno proprio mirato, ma gli sono cadute accanto così, per caso, com'è successo giorni fa vicino a una casa dove si teneva la veglia funebre per un ragazzo che era andato volontario a lavorare su una di quelle ambulanze; non possiamo mica ricordare tutti quei casi e quei particolari che ci sono stati detti e che abbiamo sentito raccontare durante questi


undici anni, pardon, giorni, tanti morti, adesso non ci pensare, l'unica cosa è mettere la tua famiglia al sicuro: sicuro? lo sappiamo che a Gaza nessun posto è sicuro, tutti i tuoi vicini hanno già sgomberato le loro case, tu e gli altri li avete visti, a decine, a centinaia, a migliaia, riversarsi per le strade – o meglio, quelle che un tempo erano strade e adesso sono un ammasso di asfalto contorto e brandelli di edifici – tutti stanno cercando un riparo, molti di loro sono agricoltori, non profughi del 1948, alcuni sono stati feriti nelle serre e nei campi, dove hanno lavorato fino all'ultimo minuto, adesso l'Onu ha aperto ventitré scuole per ospitare loro e quelli come loro, famiglie, neonati che piangono, vecchi e vecchie che credevano di aver già visto tutto nel 1948, donne incinte, bambini terrorizzati, ancora sotto shock dopo queste ultime migliaia di bombe e obici e missili che hanno invaso la loro infanzia e il loro sonno e li hanno fatti ammutolire, solo i loro occhi spalancati urlano, tua moglie è infermiera al reparto maternità e mentre tu portavi via i bambini lei – si chiama Fakhura, che vuol dire fiera – è andata alla scuola a visitare donne e bambini e a dare consigli su come fare e come cavarsela per chissà quanti giorni in quelle stanze affollate; hai appena raggiunto il tuo rifugio nel quartiere più ricco di Gaza, Rimal (che è stato bombardato anche più dei campi profughi), quando le radio a pile della gente (non c'è luce quindi non c'è tv, ma chi se ne importa adesso dell'elettricità, è l'acqua che manca da cinque giorni che ci fa davvero impazzire), dov'eravamo, ah sì, la radio a pile ha strillato la notizia di una bomba che ha colpito una scuola abitata da centinaia di persone venute in cerca di riparo, all'inizio non ci hai fatto caso, eri troppo occupato a scaricare i bambini e le poche suppellettili che ti sei portato dietro, poi quel nome, Fakhura, ha perforato come un trapano il tuo darti da fare e ti sei detto non può essere, hai chiamato il suo cellulare, ma prima ancora di chiamare sapevi che la rete ormai non c'era più, tre antenne erano state colpite dai missili o dalle bombe o da chissà che, le hai mandato un sms, erano le quattro del pomeriggio, tua madre chiedeva dov'era tua moglie, tu hai detto "guarda sta occupandosi di certa gente ma tra poco ritorna", i tuoi figli hanno chiesto quando arrivava mamma, tu sei rimasto zitto, ma dentro avevi un terremoto, in questi undici anni hai visto la morte tante di quelle volte che potevi immaginare… no non puoi immaginare, lei non può essere una dei dieci che sono rimasti uccisi, secondo le prime notizie, poi nel giro di mezz'ora i morti sono quindici, poi trenta c'è chi dice quaranta, abbiamo smesso di contarli, tu ricordi vagamente che la mattina sono state uccise tredici persone della famiglia Al Dayya, alla periferia est di Gaza, genitori e figli, e otto persone della loro famiglia ancora non si trovano, forse sono sotto le macerie, non avranno "l'onore" delle prime pagine come tanti altri bambini e donne e vecchi che vengono aggiunti alle statistiche di morte che, quando hai l'energia per ascoltare la radio israeliana, vieni a sapere che erano "terroristi" o civili "che i terroristi usavano come scudo", ed è per questo che loro si permettono di bombardare e prendere a cannonate le case dove si pensa che abitano militanti e leader di Hamas, però la maggior parte di loro è già scappata e restano solo

i vicini, ma sono le cinque del pomeriggio e di tua moglie ancora nessuna notizia e le immagini fugaci di cadaveri, arti, carne strappata, tutto quello che hai visto in questi undici giorni di incubo ti attraversano la mente e tu le cacci via, se questi undici giorni sono stati lunghi, quell'ora tra le cinque e le sei del pomeriggio, quando finalmente si è fatta viva, è stata un milione di volte più lunga, lei è spuntata e tu hai cominciato a sgridarla, perché non hai chiamato, perché non mi hai mandato un messaggio, la coscienza resta indietro rispetto alla realtà, ti aggrappi a cose normali, anche se in undici giorni siamo stati ricacciati indietro all'età della pietra, tu urli e lei si scusa, anche le scuse sono una cosa normale che fa a pugni con la realtà, poi lei si mette a piangere, c'era sangue dappertutto dice, mi hanno riaccompagnato a casa in ambulanza, poi ho preso la nostra auto e sono venuta qui, sono stanca, ho bisogno di dormire, ha detto e hai capito che è sconvolta, fa l'infermiera e di cose ne ha viste, specie in questi ultimi otto anni, ma questo no, a questo non era preparata, adesso abbiamo tutti bisogno di psicoterapia collettiva, dici, quello che ho visto non è guerra convenzionale, la gente dentro le case e fuori le bombe e poi c'è fumo in ogni casa, i bambini soffocano, tu cerchi di spegnere il fuoco e quello non fa che aumentare, avete tutti paura, ognuno lo mostra in un modo diverso; le donne tremano tutte, gli tremano le mani, non riescono a fermarle, è quello che ha notato Yaakub, che ha dato la mano alla mia amica Salwa, la sua vicina di un tempo al campo profughi di Shabura a Rafah, e ha notato quanto le tremava, mentre al telefono la sua voce era calma e composta, "quando mi sveglio mi stupisco di essere viva", mi aveva detto, "so che è solo per caso che sono viva", ma le mani le tremano, mi sussurra all'orecchio, per telefono, il nostro comune amico Yaakub, certo che anch'io ho paura, ma non lo faccio vedere, ha dimenticato come urlava dentro il ricevitore quel sanguinoso sabato 27 dicembre 2008, quando l'aviazione militare israeliana ha sganciato di colpo cento bombe su tutta la Striscia di Gaza, metà dei suoi bambini stavano tornando proprio in quel momento dal primo turno di scuola, l'altra metà e sua moglie stavano per andare al secondo turno (le classi sono talmente zeppe che le scuole hanno esteso il sistema dei due turni, oltre la metà della popolazione di Gaza è formata da persone sotto i diciott'anni) e tutti quei bambini erano fuori per la strada quando il fiore della tecnologia israeliana e americana ha riversato la sua potenza sui campi di addestramento di Hamas abbandonati e sui commissariati di polizia, che spesso sono stati costruiti proprio nel centro delle città, vicino alle scuole, se l'è scordato Yaakub come urlava al telefono, quando ho chiamato annunciando quella spaventosa notizia, lui ha gridato che nessuno dei suoi figli rispondeva, che non sapeva che cosa gli era successo e che sua moglie era appena uscita di casa per andare alla scuola dove insegna, ma sono impazziti, ha urlato, e nei giorni successivi si è fatto sempre più silenzioso, le sue frasi sempre più sconnesse, a volte gli scappava uno strano scoppio di risa, per esempio quando ha raccontato di un programma radiofonico notturno trasmesso da un'emittente locale che

miracolosamente funziona ancora, dove un sacco di commercianti e di operai che prima lavoravano in Israele e conoscono l'ebraico telefonano cercando di analizzare la politica di Israele e le dichiarazioni dei suoi leader, e poi si mettono a rievocare quegli anni in cui tutto era possibile, proprio come ha fatto Ahmad Sammour quando gli ho parlato al telefono, il primo giorno del nuovo anno, Ahmad Sammour, Abu Iyad, il fabbro, che per trentun anni aveva lavorato in Israele e aveva tirato su un intero quartiere di Ashkelon (Majdal, la cittadina natale della mamma di Maher), fino a quando il mondo gli si è chiuso addosso e allora ha aperto un'officina nella parte est del villaggio di Jabalia, puoi chiamare il mio ex capo, Jack, ho lavorato nella sua officina di fabbro ad Ashkelon, mi ha detto al telefono, in ebraico, gli puoi telefonare, ti parlerà lui di me, ancor oggi lo chiamo papà, lo dirà lui al tuo esercito che io non sono di Hamas, avete tanti di quegli esperti, fateli venire qui a vedere che il camion colpito dal loro missile era il mio, e che le "decine di missili" che secondo l'esercito israeliano si trovavano a bordo di quel camion erano i macchinari della mia officina e certe bombole di ossigeno che ci servono per saldare i metalli, qui fabbrichiamo porte e cancelli, mica razzi, ma quelli hanno colpito il mio camion e mio figlio c'è rimasto, è morto, e come lui altri sette ragazzi che mi aiutavano a sgombrare la mia officina dopo che era stata bombardata una casa, avevamo paura che quelle porte spalancate fossero una tentazione per i ladri, e così qualche ora dopo che avevano colpito la casa siamo venuti con il camion e con la golf bianca di mio cognato e ci siamo messi a sgomberare e a caricare: quello che è esploso sono le taniche di benzina e di carburante diesel che teniamo sempre da parte per quando sul mercato non ce n'è, a esplodere non sono stati dei razzi come ha detto il vostro esercito, ma il nostro ossigeno e la nostra benzina; mio cognato è appena andato via con la sua auto che abbiamo caricato di elettrodi – cinquanta confezioni da quattro chili l'una, si usano anche quelli per le saldature – e ha sentito lo scoppio, è tornato di corsa, ha visto tutti morti, i suoi figli, mio figlio, i vicini che ci davano una mano, ed è tornato a casa e da allora batte la testa contro il muro, voi che avete gli esperti fateli venire a vedere che non c'erano missili Grad, ora tutta quella roba sta lì, bruciata, accanto all'officina, nessuno osa toccarla o portarla via per paura che il drone mi prenda per uno di Hamas e mi spari un missile, telefona pure a Jack, io lo chiamo ancora papà, mi ha appena chiamato per chiedermi il mio numero di conto in banca, per mandarmi qualche soldo, Abu Iyad non lo sa che io ho telefonato a Jack e che lui con un accento francese mi ha detto "mi rifiuto di parlare con quella merda di giornale che è Ha'aretz", io non ho insistito non solo perché ero certa che Abu Iyad non è di Hamas, ma perché ci sono tante telefonate da fare dalle sei di mattina a mezzanotte, controlli se siamo ancora vivi, ride Salwa, ma va bene, va bene, anche noi facciamo lo stesso, ogni mattina ci telefoniamo a vicenda per controllare se siamo ancora vivi, mi tranquillizza, la sua voce sempre così calma e composta, come se ti stesse parlando di un film e non della bomba che ha colpito il ministero dell'istruzione proprio dietro l'angolo: prende in pieno il palazzo e tu pensi che sia caduta sopra casa tua, e tutti i vetri delle finestre in frantumi ma gli infissi di metallo sono stati strappati e la porta è talmente contorta che ci sono voluti tre vicini per aggiustarla,

ora il freddo e il vento sono inquilini fissi, niente luce, ma lascia perdere la luce, è l'acqua che ci manca, e con tutto questo stiamo meglio noi di tanti altri, al giornale radio abbiamo sentito che un razzo Qassam ha colpito Qiryat Gat, cioè Faluja, il villaggio dov'è nato mio padre, e io ho detto, scusami Qassam ma nessuno ti ha dato il permesso di colpire la mia terra, una volta ci siamo andati con mio padre, quando eravamo piccoli, lui ha riconosciuto il villaggio anche se tutte le case erano state rase al suolo, la casa di mia madre nel campo profughi di Shabura a Rafah è stata colpita, non direttamente ma dall'esplosione di una bomba che ha preso proprio una baracca sul piazzale del campo, figurati che casa, eternit e lamiera, ma lei si è rifiutata di andare a stare da mia sorella finché il tetto non le è crollato a pochi centimetri dalla testa, e adesso il suo unico desiderio è morire prima che succeda qualcosa a noi.

Dal diario di Amira Hass per l'Interlazionale, 8 Gennaio 2009.

giovedì 8 gennaio 2009

Eh sì...Le vacanze sono proprio finite.

I libri sono lì sulla scrivania che mi chiamano e le giornate iniziano lentamente a riprendere la consueta forma. Non che mi dispiaccia più di tanto, in verità, ma queste fasi di transizione, soprattutto i saluti, mi suscitano sempre un pò di malinconia...
Ieri sera abbiamo mangiato qualcosa nel nostro ormai affezionato localetto e poi siamo andati a trovare l'amico pianista, che spesso ci ha allietato in queste sere, con una buona bottiglia di moscato ed un vassoio di cantucci.
Michele è ripartito stamani, dopo avermi regalato altri momenti eccezionali...
Ed io son di nuovo qui tra voi, in questo caro angoletto, con buoni propositi e tanta energia.

Per sta sera vi lascio con due chicche: il film di Roberto Faenza che ho visto qualche sera fa, Jona che visse nella balena (1993), tratto dal romanzo autobiografico Anni d'infanzia. Un bambino nei lager dello scrittore Jona Oberski.
In più, eccovi questo spettacolare cortometraggio di Mark Osborne, More (1998).
Racconta la storia di un inventore che vive in un mondo squallido e senza colori. Il suo è un lavoro duro e disumanizzante e la sua unica salvezza è il ricordo della felicità d'infanzia. Di notte, lavora in segreto su un'invenzione che potrebbe aiutarlo a far rivivere quei ricordi e ad estendere la loro gioia a tutti. Riuscirà addirittura a cambiare il modo in cui le persone guardano il mondo.
Ma sarà il suo stesso successo a fargli perdere una parte importante di sè...
Buona visione ed a presto!